Alfredo Martinelli & dintorni
Alfredo Martinelli & dintorni
Afonia
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Imparai a inventare e scrivere storie perché le emozioni non diventavano parole per uscire dalla bocca, piuttosto mi rendevano afono. Fin quando si trattava di un’interrogazione, una equazione alla lavagna o una lettura in chiesa, non avevo problemi, ma la prima volta che provai a invitare per un lento una ragazzina che mi piaceva, dalla bocca uscì un suono simile a un muggito soffocato. A lei venne da ridere, si girò e andò via per farlo da un’altra parte. Io rimasi incredulo, ma dovetti ben presto capire che non era stato un caso. Con il passaggio dalle medie alla superiori la situazione riuscii a tenerla sotto controllo evitando di provare interesse per le ragazze. Ero divenuto così abile nel bloccare ogni emozione, che sul mio conto c’erano due scuole di pensiero. Secondo la prima ero un tipo fin troppo razionale, che non lasciava nulla al caso, quasi simile a un robot. Per altri ero un grande strafottente, uno di quelli che avrebbe campato oltre cent’anni. Io davo ragione a entrambi i punti di vista e tiravo dritto per la mia strada. Con i miei nonni e genitori avevo preso la bella abitudine di scrivere bigliettini augurali densi di tutto le parole che non sarebbero mai uscite, perché troppo cariche di emozioni per uno con il mio problema. Loro apprezzavano molto e scoprii che addirittura ognuno di loro conservava i miei bigliettini, come se fossero stati buoni postali. Tutto sommato, la mia vita, seppur priva di innamoramenti, sfilava via ricca di tante altre soddisfazioni. A scuola andavo bene, sapevo intrattenere adulti e coetanei con conversazioni che spaziavano dai poeti trovatori al più banale dei film natalizi. Dopotutto non avendo altre distrazioni, trascorrevo il tempo ad apprendere un po’ di tutto. Poi un giorno arrivò la batosta fino a quel momento evitata con attenzione. La vidi nella palestra della scuola, dove il pomeriggio alcuni di noi facevano il rientro per allenarsi. Lei e le sue compagne di squadra erano alle prese con esercizi di ginnastica ritmica. Non so dire quanto tempo rimasi incantato a osservare la perfezione dei movimenti e la grazia dei lineamenti: dal profilo del viso, all’eleganza delle spalle, passando per il seno e giù fino alle gambe, non c’era un solo elemento fuori armonia. Il tutto si raccordava a due enormi occhi profondi come lo spazio che di notte mantiene le stelle sopra le nostre teste. “Mi hai guardato tutto il tempo, c’è qualcosa che non va?” mi chiese a fine allenamento fermandosi davanti a me con aria quasi scocciata. Non so bene quale suono mi uscii dalla bocca, però ricordo bene la sua espressione incredula. Disse semplicemente “eh? … va be’ dai, lascia perdere!” ed entrò negli spogliatoi. Quel giorno mi allenai con molto più vigore del solito e lo stesso accadde la volta dopo e la successiva ancora. Ma dopo una settimana esatta, la rividi nuovamente nello stesso posto e rimasi ugualmente a fissarla tutto il tempo. Questa volta se ne accorsero anche i miei compagni di squadra: “Ehi, non dire che ti piace quella lì? lo sanno tutti che non si fila a nessuno, non perderci tempo che ti farai male!” “Ma figuratevi!” risposi, aggiungendo un po’ di verità: “però è carina!” “Carina? è proprio bona!” risposero in coro e lì seguii negli spogliatoi ridendo, per camuffare il disagio che iniziavo a provare al solo pensiero di doverle parlare. Durante la settimana successivi seppi la via in cui abitava, la scuola dove stava frequentando l’ultimo anno, il giro di compagnie con cui usciva, più altre informazioni su un presunto suo fidanzatino di qualche anno prima. Tutto utile e al tempo stesso inutilizzabile. Cosa avrei potuto fare, per vincere la mia afonia da emozione? Nel frattempo il tempo passava e io continuavo ad avvitare i pensieri lungo una spirale senza fine e senza senso. Finalmente, però, come la visita inaspettata di un caro amico, giunse l’illuminazione. Ero tra la veglia e il sonno, tra la notte e l’alba, quando i pensieri vagano ancora liberi dalle convenzioni.
Iniziai quello stesso pomeriggio a lasciare pezzi di frasi numerate accanto ai suoi oggetti. Non solo in palestra, ma nella cassetta delle lettere, chiuse in una busta da lettera a lei indirizzata, sotto il suo banco in classe e nel suo zaino. Non ebbi fretta nel farle recapitare i fogli e non ebbi sempre la stessa cadenza temporale. Alle volte tra uno e l’altro feci intercorrente 3 giorni, in altri casi 2 o 4. Anche i metodi variavano, anche se alle volte si assomigliavano. Arrivai anche a fargli giungere una frase con un aeroplano di carta lanciato in camera sua, attaccata a un palloncino colorato portato da un bambino e sul tovagliolo di una colazione al bar. Tutto grazie a molti amici fidati. Le parti di frase non erano in sequenza, in modo che per capire il senso sarebbe stato necessario avere il giusto ordine. Nell’ultimo foglio non misi una parte di frase. Scrissi che per la giusta sequenza l’avrei aspettata in un pub del centro storico.
Nello scriverlo mi tremarono le mani, perché, se non avesse accettato, avrebbe comunque potuto osservare da lontano chi fossi e non presentarsi. Se avesse accettato la mia psicosi da emozione avrebbe potuto rovinare tutto in pochi secondi. Ma era giunto il momento di dare un senso a quel gioco di strategici incastri al quale non sapevo se lei stava partecipando e in che modo, perché non ebbi mai alcuna prova o semplice indicazione del suo pensiero.
Quella sera mi vestii bene, con ordine, tranne i capelli, che ho sempre preferito lasciare liberi. Non scelsi un tavolino in fondo alla stanza, ma al centro, per mostrare sicurezza. Ero arrivato cinque minuti prima e ormai ne erano già trascorsi quindici oltre. Avevo deciso che avrei atteso fino a venti minuti di ritardo, poi sarei andato via. Le luci di tutti quei lampadari dalle forme e colori differenti, appesi al soffitto in modo irregolare e tutte quelle stampe di fotografie che tappezzavano i muri stavano iniziando a irritarmi. La colorazione arancione, verso cui tendeva tutto quel che mi circondava, cominciò a darmi una brutta sensazione di mancanza di respiro. Un po’ alla volta una brutta sensazione di oppressione e mancanza di respiro sorse pian piano dal centro dello stomaco. Era giunto il temuto momento di andar via, senza dare nell’occhio, con lo stesso sorriso con cui ero arrivato. Avrei solo dovuto liberare la mia imperterrita faccia tosta, la stessa che mi aveva salvato tante altre volte. Fu un istante prima che mi alzassi sconfitto, che sentii recitare alle mie spalle le parole nella giusta sequenza, senza necessità dell’ultimo foglio e la sua non era una lettura o una recitazione, ma un canto che dialogava con la mia anima.
Oggi, dopo oltre vent’anni, ogni volta che ci arrabbiamo fra noi, lei la canta come allora e ogni aspetto del nostro mondo torna al suo posto.

AM
Beevento, 4 marzo 2020

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