Accettai l’invito solo perché avevo voglia d’essere guardato da occhi azzurri.
Nei due scuri precedenti avevo visto il baratro della paura, che lascia graffi sulla pelle dell’anima, ma la mia pelle è ormai cuoio e mi sono salvato.
Sopra le strade del centro, le ultime luminarie si riflettevano sul lucido lastricato di pietra bianca.
Quella sera avevo voglia di ascoltare e farmi osservare, avevo voglia di sorseggiare e farmi guardare, avevo voglia di ridere e farmi guardare. Osservare due enormi occhi azzurri che ti guardano, lava la mente da ogni maldestro pensiero, rallenta la frequenza cardiaca, rende il respiro profondo e il corpo leggero.
Se ancora oggi nessuna scienza, nessuna religione, nessuna terapia, nessun polveroso manoscritto ha mai indicato questa cura, è solo perché nessuno ha mai scelto di farsi guardare, così come ho scelto io.
Tutto chiude all’imbrunire in quella zona della città, che, nei giorni tersi come quello, corrisponde al lungo momento blu del cielo, tanto adorato da pittori, poeti e da me.
Scegliemmo una minuscola piazza con botti come tavoli, sgabelli come sedie e olivi luminescenti di minuscole luci come tenue lucciole estive.
Mi parlò dei suoi ultimi viaggi, delle ricette che aveva inventato, del libro che stava leggendo e quello appena terminato. Di idee per l’imminente futuro e quella folle idea di cambiare radicalmente vita, ma non parlò mai di lavoro, né dei suoi amori passati e presenti. Ogni parola riverberò sulle pietre delle pareti dei piccoli edifici circostanti. I suoi occhi non smisero d’osservare ogni mia minima espressione, ogni movimento del capo e delle mani mentre ascoltavo, sorseggiavo e ridevo.
Di me non chiese, lo capì guardandomi, mentre i suoi occhi si tinsero dell’imbrunire e mi accolsero nel silenzio di una città divenuta per noi teatro e pubblico, scenografia e sceneggiatura, l’alfa e l’omega di quel lungo momento.
AM
MT, 10 gennaio 2025