montefalcone di val fortore
Alfredo Martinelli & dintorni
Alfredo Martinelli & dintorni
Rosso cadmio
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All’epoca ero molto piccolo, ma non scorderò mai le parole del medico a mia madre:
– “Signora, suo figlio è totalmente anaffettivo, ma non per colpa sua. Il suo organismo non produce la sostanza che regola le emozioni. Solo per questa ragione non riesce a provarle. Non ha un brutto carattere.

Seppur ancora bimbo, capii che non era una cosa buona, ma capii anche che non era colpa mia se non sorridevo come gli altri o non piangevo quando mi lasciavano all’asilo, non avevo paura del buio e non ero contento a Natale. Vidi invece qualcosa di nuovo nel volto di mia madre, come il passaggio di una luce negli occhi che si andò a poggiare sulle labbra in un accenno di sorriso. Quel giorno ricordo bene che era estate piena, perché la notte dormivamo con tutte le finestre aperte e sentivo le cicale frinire come se le avessi accanto al letto, nella stanza. Non mi davano fastidio, piuttosto mi facevano compagnia.

Molto meglio loro di tutti quelli che passavano il giorno a dirmi “e sorridi un po’ su!” – “ma cosa è successo? è morto anche oggi il gatto?” – “e fallo un sorriso alla zietta tua, che ti costa, sono così antipatica?” – “ah sta arrivando quello scemo!” e altre varie amenità.

Al ritorno nel nostro piccolo paese, immerso nei campi di grano distesi lungo le pendici delle colline, per diversi giorni notai mamma indaffarata in qualcosa. Andava e veniva tra la casa e la cantina, posta sotto la nostra palazzina in pietra, dislocata in una delle tante vie del quartiere, tra i saliscendi delle scale e gli scorci affacciati sulle valli intorno. Poi un giorno venne a cercarmi. Io ero in giro tra i vicoletti a giocare con i gatti. I miei coetanei mi evitavano per via del mio essere strano. Ma non sempre era colpa loro, molti seguivano le indicazioni delle nonne e delle mamme, secondo cui ero impossessato dal diavolo. Mi trovò ero seduto su uno dei tanti gradoni delle lunghe scalinate in pietra che collegavano internamente le zone del quartiere. Intorno avevo tre gattoni neri, così grandi che, se avessero voluto, avrebbero anche potuto mangiarmi. Invece mi dormivano placidi sulle gambe e le spalle.

Quando mi vide, mi chiamò con la solita dolcezza, dalla quale, quella volta, intravidi una particolare gioia. Aveva fretta, così mi prese per mano per camminare più spediti. Dietro noi, i gatti seguivano silenziosi. Giunti sull’uscio della cantina, notai che dal grande scaffale in tavole di legno sulla parete di fondo, aveva tolto tutte le bottiglie di salsa fatta in casa e i barattoli delle conserve. Al loro posto aveva messo tanti altri barattoli, che a prima vista sembravano vuoti. “Vieni” mi disse, “mettiti al centro della stanza e chiudi gli occhi”. Seguii le indicazioni e, per avere certezza di non sbagliare, mi coprii il viso con entrambe le mani. Sentii il clic dell’interruttore della luce e lei dire “Ora aprili!”.

Dapprima non notai altro che un avvolgente buio, poi, un po’ alla volta, vidi accendersi delle lucine in ogni barattolo. Si muovevano e luccicavano di una fosforescenza tra il giallo e l’arancione. Un po’ alla volte la luce divenne così intensa che riuscivo a vedere cosa ci fosse nella stanza. Sembrava di vedere il mio paese da lontano, lungo la strada che passa tra i campi. Mi lasciò osservare con calma, poi mi prese la mano e mi condusse vicino al grande scaffale. Il mio volto era all’altezza del ripiano più basso e notai in ogni barattolo due o tre lucciole e una garza a ricoprire l’imbocco del vasetto per tenerle dentro. “Così moriranno!” le dissi, senza commentare altro e con la mia voce monocorde. Lei rispose con la solita pazienza “Non preoccuparti, tra poco le libereremo, ora però guarda e ascolta con attenzione.” Subito dopo, mi fece vedere un foglio, messo sotto il barattolo davanti ai miei occhi e notai che sotto ogni barattolo c’era un foglio differente. Lo prese e sopra c’era la foto ritagliata da un giornale, di un ragazzino che rideva.

Da una scatola lì vicino estrasse una candela e disse: “Immagina che questa candela sia una tua emozione. Scegli quale emozione ti piacerebbe avere.” “Voglio ridere”, le dissi d’istinto. “Bene”, disse e insieme liberammo le lucciole dal vasetto dove c’era l’immagine del ragazzino che ride. Poi prese la candela, la mise al posto delle lucciole e disse: “Ora che la accenderò, tu sorriderai come questa foto e ti guarderai in questo specchio per i trucchi. Lo lascerò qui e potrai usarlo quando vorrai.” Lei accese la candela e io imitai l’espressione del ragazzo, lo feci senza pensarci, come se fosse un gioco tra me e lei. Guardandomi nello specchio non ero tanto male e mi piacque. Sorrise anche lei e mi fece piacere vederla contenta, così le proposi di farlo con un’altra foto. “Quale scegli?” “Paura” risposi e cercammo il vasetto con il ritaglio di giornale di uno che aveva la faccia spaventata. Giocammo ancora un po’ con altre espressioni. Prima d’andar via, mi mise al collo la chiave della cantina infilata in un lungo laccio colorato e disse: “Ogni volta che penserai di voler ridere, gioire, aver paura, piangere, essere triste o sconsolato, vieni qui e accendi la candela nel vasetto che corrisponderà alla emozioni che vorresti avere.

E se avessi voglia di accenderle tutte, cosa significherebbe?” le chiesi con la tipica curiosità dei bambini. “Vorrà dire che sarai innamorato!” rispose accarezzandomi una guancia. Andammo via e ognuno tornò alle proprie faccende: io a giocare con i gatti e lei alle prese con la casa, i pasti, i panni e il suo lavoro. Nei giorni seguenti di tanto in tanto scesi in cantina e mi divertii ad accendere candele e fare le facce strane. Divenne un gioco, che un po’ alla volta mi insegnò a ricordarmi la faccia da fare per esprimere quel che pensavo fosse il sentimento più adeguato alla situazione. Soprattutto all’inizio non sempre selezionavo dai ricordi la giusta espressione, ma, anche grazie al suo aiuto, la situazione migliorò e arrivai alle scuole superiori ormai padrone di ogni mimica adatta alle principali situazioni in cui avrei potuto trovarmi. A tutte, ma non a quella ritenuta da tutti la più importante e quando giunse mi trovò totalmente impreparato.

Lei ballava danza classica e la sua grazia cancellava ogni ricordo di espressione da fare. Quando mi trovavo con lei la mente era persa altrove, lontana dalla cantina, dalle candele e dai ritagli di giornale. Nonostante tutto, un po’ anche grazie alla presenza di altre persone, riuscii a mascherare la mancanza e farle capire che mi piaceva molto sia al sua figura durante la danza e sia come persona. Lei apprezzo e tra noi si stabilì un bel rapporto di amicizia. Venne poi il tanto desiderato giorno della prima uscita insieme. Così, prima d’andarla a prendere sotto casa, passai in cantina e raccolsi molti ritagli di giornale. Li ripassai un’ultima volta e li misi in tasca, con la speranza di avere modo di prendere quello giusto, qualora fosse servito. Sembrava andare tutto bene, fin quando non salimmo in cima al paese. Seguendo un sentiero buio come quella volta nella cantina, giungemmo fin sui ruderi del vecchio castello. Sembrava d’avere il mondo ai nostri piedi e io mi immobilizzai. Ero alla ricerca della giusta espressione, ma non ricordavo più nulla, sentivo solo il petto battere forte e la saliva fermarsi in gola.

Nel più totale immobilismo espressivo, mi voltai verso lei, quasi in cerca di aiuto, ma senza riuscire a farglielo capire. “Aspetta qui.” disse però lei e sparì dietro uno dei malconci muri ancora in piedi.

Rimasi al centro dei ruderi, nel punto più alto. Da un lato c’era la vallata dei campi di grano, buia come il nero sipario di un teatro. Dall’altra c’era il paese. Proprio dalla parte del paese uscì lei. Indossava un abito da ballo color rosso cadmio e le scarpette bianche da palco. Alle sue spalle, i vicoli, le scale e le strade del paese erano illuminati da tante piccole luci con un colore tra il giallo e l’arancione tenute. Erano tutte accese e ricordai le parole di mia madre in cantina, poi osservai il suo volto illuminarsi come avrei voluto divenisse il mio. La imitai, come se fosse stato il gesto più spontaneo che potessi fare in quel momento. Lei si inchinò come per un invito e danzammo come mai avevo fatto.

acquerello di Ballerina rosso cadmio di Alfonsina Paoletti
acquerello di Ballerina rosso cadmio di Alfonsina Paoletti

AM
Benevento, 24 agosto 2020