Può solo un nome evocare tanto? imprigionare pensieri, dettare il pulsare nel petto e far sentire lo stomaco arrendersi alla mancanza? Sì, può farlo e imperterrito continuare fino al prossimo cenno di presenza, che induce la gola a deglutire in un riflesso condizionato, gli occhi chiudersi per un istante mentre i polmoni inspirano come dopo una lunga apnea. Attimi che passano rapidamente, il necessario per girare la clessidra e far ripartire il tempo fino al prossimo “ciao, come stai?”
Così era per me, tra un nostro incontro e il successivo. Nel mentre i pensieri si accartocciavano in forme senza senso, come in un’inusuale e inaspettata primavera. Con un solo soffio di vento si erano risvegliate emozioni, ricordi, stati di benessere fisico, alternati a momenti profonda depressione, che mai avrei immaginato di vivere in un’età spesso più incline a intendere i nipoti come ciò che appaga le giornate e fa scordare gli errori d’una lunga vita mai completamente vissuta. In quel momento tutto quel che mi era mancato era finalmente giunto, anche se non più cercato, non richiesto e forse anche scacciato. Come un turbine d’aria spalanca finestre e porta con sé tutto ciò che non è ben saldo, così lei era arrivata nella mia vita, liberando da inutili orpelli e catene ogni mio inutile tentativo di difesa. Ero tornato a spolverare i vecchi 33 giri, a pettinarmi, a guardarmi allo specchio prima d’uscire, a riprendere la penna per scrivere pensieri ricchi di un romanticismo che pensavo d’aver perso per sempre o forse non aver mai avuto prima di allora. Mi ero nuovamente ammalato di tramonti, del vento sul viso, di poesie e di pensieri romantici al punto da chiedermi come potesse essere il mondo prima che giungesse l’Amore.
E lei? Mi chiederete.
Pur cercandomi con naturalezza, non andava mai oltre conversazioni di ogni natura, dalla cronaca alla spiritualità, passando per il lavoro dei figli, ma mantenendo sempre una impalpabile distanza emotiva. Un po’ alla volta iniziammo anche a ideare sconclusionati progetti come viaggi a piedi o la costruzione di case di legno in riva al mare. Molti non videro mai la luce, ma ci divertiva molto pensarli, perché ci faceva sentire più giovani. Lei sembrava immune a tutto il mondo che mi aveva riversato addosso, mentre io qualche volta mi rendevo conto di soffermarmi imbambolato, immerso in fantasie di me e lei in posti esotici e lontani. Per difendermi dalla perdita di contatto con la realtà, ho più volte posto alla coscienza un ciclo senza fine di domande a cui rispondevo con razionali evidenze: “siete entrambi anziani, la tua vita è questa, non l’altra. Svegliati e godi il tempo restante con la tua famiglia.” Poi, per renderle ancora più invadenti, le urlavo davanti allo specchio o per strada, quando ero sicuro che non ci fosse nessuno nei paraggi.
Il vero grande problema era che, da qualunque parte osservassi la mia vita, tutto quel che avevo imparato, scartato, costruito, raggiunto, distrutto, abbandonato, rimodellato e ricostruito, in quel momento sembrava fosse stato guidato da un invisibile suggeritore, per farmi giungere fino a lei in quel preciso istante e nella forma della persona, che nel tempo ero diventato. Essersi conosciuti prima o dopo, con vissuti ed esperienze differenti, non avrebbe generato lo stesso risultato.
Nel bene e nel male, di questo ne eravamo consapevoli entrambi. Non era una mia illusione e non era necessario che me lo dicesse o facesse finta di niente, era sufficiente osservarla illuminarsi a ogni nostro incontro. La pelle non mente, cambia luce come gli occhi e come loro segue le vibrazioni dell’anima. E poi quando la mente imbavaglia i sentimenti e segrega il cuore, è il resto del corpo a muoversi nella giusta direzione. Il suo spesso si avvicinava al mio, trasmettendo benessere.
Di incontri ce ne furono tanti, non tutti voluti o cercati. Molti casuali e per questa ragione, per me, ancora più significativi. I primi avvennero in occasione di feste di di amici in comune, poi furono sempre un po’ più cercati e da parte mia desiderati. Ogni volta però, al momento di lasciarci, si dileguava o si rendeva quasi liquida, impalpabile. Ho sempre pensato che lo facesse per evitare, al momento del commiato, che la malinconia prendesse il sopravvento e la paura della perdita esponesse a gesti impulsivi, trasformandolo in un punto di non ritorno, un evento dopo il quale nulla sarà più come prima, qualunque sia la reazione dei protagonisti. Io lo giudicavo un comportamento strano, più affine agli adolescenti delle epoche passate o qualche personaggio di romanzi d’amore, ma rispettavo la scelta e lasciavo che tutto continuasse senza alterazioni, senza forzare la naturalità degli eventi.
Avrei tanto voluto parlare di lei con qualcuno, non per consigli, quanto per scaricare il pesante fardello emotivo. Ma era da pazzi anche il solo pensiero d’affrontare gli interminabili sermoni di tutti coloro a cui avrei confidato questa rinnovata freschezza sentimentale. Di sicuro non lo avrebbero capito i miei figli, dai quali temevo il giudizio più severo ai limiti del ripudio e probabilmente neanche quel che avanzava dei miei amici di un tempo. Alle nuove conoscenze non avevo neanche lontanamente pensato. Sapevamo così poco l’uno dell’altro che una simile confidenza non avrebbe avuto un grande senso. Seppur con grande insoddisfazione, tenni chiusi tali pensieri. Scelsi però di parlarne ad alta voce a me stesso ogni volta che mi fosse stato possibile. Inventai una sorta di dialogo fra la mia voce interiore e quella che usciva dalla bocca. Con questo strano sistema avevo imparato a scaricare emotività e tensione sull’argomento. Lo facevo ogni volta che riuscivo a ritrovarmi solo e in un posto isolato dalle mura domestiche. Luoghi in cui la natura dominava la scena, al punto da sembrarmi lei la voce interiore con cui colloquiavo. Liberavo la mia parte indisciplinata ed emotiva, lasciandole prendere il sopravvento su quella razionale. Senza regole e doveri morali, alla mia voce interiore confidai la speranza di una apertura della mia amata nei miei confronti, che mi lasciasse intendere almeno un reciproco affetto più intenso di un’amicizia, accogliendo tra le sue braccia me e la nostra storia. Fu proprio durante uno di questi lunghi discorsi ad alta voce, rivolti al fiume silente davanti il mio sguardo, che sentii la voce interiore dirmi: “No amico mio, la speranza no. Lasciala andare, non fidarti con lei. È come una malattia: prende per sé molto più di quel che restituisce e, spesso, ti abbandona nudo. Se ami qualcuno gridaglielo in viso e bacialo forte sulle labbra oppure sparisci, per sempre.” Era risuonata nitida nella testa, quasi come se l’avesse pronunciata una persona seduta accanto a me. Rimasi parecchio stranito e muto. Fino a quel momento, quella sorta di risposte erano state composte da poche parole. Una frase così articolata non mi era mai accaduto di ascoltarla. Muto tornai a casa e per parecchi giorni non ebbi più alcun pensiero che riguardasse quella storia, quasi come bloccato da una sorta di paura dell’ignoto. Lei continuò a cercarmi per ragioni che non avevano mai il senso di una scusa. Ogni volta un’idea innovativa su cui confrontarci.
A chi ora si chiede se non mi desse fastidio sapere del suo rientrare a casa la sera dal marito e i figli, così come io tornavo alla mia famiglia, rispondo semplicemente no. Non mi dava fastidio, perché nei momenti in cui eravamo insieme lei era la mia parte mancante, il senso della giornata, fonte di estremo benessere e dava un senso a tutto quel che avevo compiuto prima. Cosa invece pensasse lei non l’ho mai saputo né gliel’ho mai chiesto, perché era fuori dal mondo che si era creato tra noi.
Erano oramai diverse settimane che la mia voce interiore non dava segni di vita. L’avevo cercata in vari posti ed ero anche più volte tornato dove l’avevo sentita l’ultima volta, ma non si era più manifestata. La sensazione mi aveva lasciato ancor più stranito, quasi malinconico, al limite della estraneazione dalla realtà. Lei l’aveva notato e in diverse occasioni mi aveva chiesto il motivo, ma fino a quel giorno avevo eluso la verità, con risposte di altra natura.
Poi mi ricordai di una nostra vecchia promessa: seppur avrebbe potuto non far piacere all’altro, ci saremmo detti sempre come la pensavamo su tutto quel che avesse riguardato la nostra amicizia. Quel giorno eravamo al parco. Davanti a noi la fontana al centro del laghetto sparava in alto l’acqua. Qualche gocciolina arrivava fin sui nostri visi ed era piacevole, perché faceva ancora molto caldo in quei pomeriggi inoltrati. Lei aveva accanto a sé la busta con quel po’ di spesa per giustificare l’uscita. Io ero con il mio fedele cane, stranamente più paziente e silenzioso del solito. Quasi subito iniziai a sentire insofferenza, senza riuscire a concentrarmi su quel che mi stava raccontando. “Cosa c’è?” mi chiese, accorgendosi di qualcosa. Approfittai del momento come se fosse stato l’unico a mia disposizione. Fra le mie, presi una sua mano e la portai sotto il mento: “Penso di essermi innamorato di te. Da sempre, non da adesso!” le dissi guardandola senza mai abbassare gli occhi. Non sapevo cosa aspettarmi, ero consapevole d’aver rischiato, di aver messo in bilico anni di amicizia, ma l’ultima indicazione della mia voce interiore, in quel preciso momento era giunta a maturazione e non ero riuscito a trattenere l’impeto di una confessione da troppo sofferente, come un adolescente a cui non si concede d’uscire con la primavera che bussa alle finestre. In quel momento dilatato e come nei sogni estraneo al mondo, lei continuò a guardarmi. Ebbi così tutto il tempo di osservare la grazia del viso trasformarsi in uno sguardo di sì tale dolcezza, che se Dio l’avesse visto, a entrambi avrebbe dato in dono la grazia di tornare indietro nel tempo per conoscerci quando avremmo potuto donare al mondo una gioia ben più lunga e creativa, di quel po’ che ci restava da vivere.
Mi accarezzò il viso con tenerezza, senza parlare e io mi emozionai. Poi con voce dolce disse: “Faccio anch’io parte di questa storia, se abbiamo continuato a vederci, a pensare l’inimmaginabile da fare per avere una scusa, è perché siamo in due ad amare.” Poi la voce le si incrinò e l’abbracciai come il bene più prezioso. In quegli interminabili momenti non pensai a nulla, solo a sentirla tra le braccia inspirando profondamente il suo profumo, quasi che potessi sentirla ancor più mia.
Ci alzammo quando sentimmo suonare la sirena di chiusura. Quella sera si era fatto molto più tardi del solito e le nostre famiglie avrebbero avuto qualcosa da dire, ma non era quello il momento di pensarci.
Da quel giorno sono passati molti anni ancora. Lei non cammina più e io arranco parecchio, ma trovo ancora la forza di spingere la sua sedia a rotelle lungo le stradine del parco, lasciando la sua badante ad attenderci all’ingresso. Continuiamo a parlare tutto il tempo, come è sempre stato tra noi. Poi, prima della chiusura, rientriamo alle nostre abitazioni e alle nostre famiglie.
Siamo rimasti come all’epoca, ma con molti nipoti in più di cui parlare e sempre nuovi progetti da portare a termine, fin quando avremo forza per pensare. Abbiamo preservato il nostro amore da tutti e lo abbiamo coltivato come un fiore raro, a cui non abbiamo mai fatto mancare cure. Dalla nostra felicità abbiamo attinto tutta l’energia necessaria per affrontare i problemi e le necessità dei cari a cui niente abbiamo mai sottratto.
Alfredo Martinelli, Benevento, 28 marzo 2020
AM
Benevento, 31 marzo 2020