Si dice che la morte naturale colga le persone in periodi dell’anno molti vicini alla loro data di nascita. Quel giorno era il mio compleanno ed ero sano come un pesce, ma avevo comunque deciso di farla finita.
Erano troppi i soldi che avrei dovuto restituire a quel cravattaro di merda, ma non li avevo e non avrei potuto darglieli neanche s’avesse fatto ammazzare uno dei miei figli, così preferii farla finita da solo piuttosto che crepare cementato o coinvolgere la famiglia in un’imboscata sotto casa.

Il periodo era così brutto e lo stato d’animo così nero che non mi vedevano sorridere da tempo e mi risultò facile cenare senza far capire la decisione.
Come tutte le sere aiutai i bambini a cambiarsi e rimboccai loro le coperte, prima d’uscire dalla stanza raccontai una delle tante storie inventate per farli ridere, poi spensi la luce ed andai a prepararmi.
Mia moglie sapeva da tempo dell’appuntamento di lavoro nel dopocena e non le sembrò strana la mia uscita, la salutai da lontano, quand’ero già sull’uscio e scesi le scale senza accendere la luce.
Decisi non fosse il caso lasciare qualcosa di scritto che giustificasse il mio gesto e poi volevo si pensasse a un incidente e non si capisse che la disperazione aveva vinto sulla mia volontà. Troppe pressioni l’avevano ridotta ad un barattolo di latta vuoto e deforme, privo d’alcuna utilità. Era giunto il tempo di guardare in faccia la realtà e fare una scelta coerente.
L’inverno m’investì fuori dal portone, aveva in sé un intenso profumo di neve che mi colse impreparato. Intorno regnava il bianco e i fiocchi scendevano come grossi pezzi d’ovatta sfilacciata ordinati in fitte file diagonali.
Mi resi conto di non avere le scarpe adatte, ma scivolare non sarebbe stato certo un problema, anzi m’avrebbero aiutato a giustificare la messinscena pensata. La neve attutiva i suoni ed induceva a restare a casa o chiudersi in qualche locale. Per strada non c’era nessuno e potei camminare senza fretta fino al ponte.
Avevo programmato quel tragitto da diversi giorni, l’esatto percorso composto da attraversamenti, diagonali fra i marciapiedi, i chiaroscuri delle ombre proiettate dai lampioni e l’odore umido ed intenso dell’acqua del fiume misto alla vegetazione.
L’unico imperativo categorico era non pensare a niente e disattivare l’emozioni.
Avevo le mani in tasca per non congelarle, i guanti li avevo lasciati a casa, sono sempre piaciuti al mio primogenito, sarebbe stato un peccato rovinarli. Anche il cappotto era quello vecchio.

Giunto sul posto scelto per l’estremo gesto, m’affacciai per osservare il fiume gonfio di neve. Qualche giorno prima un ubriaco aveva sfondato parte del guardrail con l’auto, ora lo squarcio era delimitato da un nastro bianco con bande trasversali rosse. Se fossi scivolato in quel vuoto avrebbero pensato tutti ad un incidente.
Mi guardai intorno e non vidi nessuno, appoggiai le mani sui bordi della breccia ed inspirai lentamente. Fu un attimo, mi vennero in mente il mio primo giorno di scuola, i miei figli quando li vidi per la prima volta ed i miei genitori il giorno della laurea. Stava per finire tutto e non certo come l’avevo immaginato.
Quello era il momento.
Feci un profondo respiro e chiusi gli occhi, spostai il piede destro sul baratro e udii più fragoroso lo scrosciare dell’acqua. Sentii il bisogno d’un altro respiro, più intenso del primo e in quel preciso istante avvertii un’inquietante strano rumore metallico accanto. Mi si irrigidirono le braccia e mi voltai d’istinto.
Fu un orrore mai visto né immaginato prima.
Urlai come se fossi stato invaso dalle fiamme e corsi senza voltare lo sguardo.
Sentii gli sfinteri cedere per la paura e feci fatica a spostare le gambe divenute molli e disarticolate, ma corsi lo stesso pur senza avere più fiato in corpo e col cuore che pulsava così forte nelle orecchie da non farmi sentire l’ansimare affannato del respiro.
Mi ritrovai sui miei passi, senza rendermene conto e scivolai sbattendo violentemente per terra sulle stesse mie impronte lasciate nella neve, quelle che qualche minuto prima avevo pensato sarebbero state le ultime.
Sentii nuovamente quell’orrore su di me, come un calore sul collo. Riusci ad alzarmi per riprendere a la corsa. Avevo la vista appannata dalla fatica e cominciai a sentire una disgustosa puzza di merda.
La strada aveva qualcosa di surreale, sui fiocchi di neve si rifrangeva l’ocra delle lampade a mercurio e non c’era nessuno a cui chiedere aiuto.
Con tremendo sforzo giunsi su una strada importante dove avrei trovato sicuramente qualcuno, ma sentii il cuore schiacciato dallo stomaco e vomitai la cena contro un palo dell’illuminazione al quale m’aggrappai per non cadere nuovamente.
Poche decine di metri avanti c’era una giovane coppia che passeggiava sotto la neve. La vidi come la salvezza. Facendo forza con le braccia riuscii a tornare eretto e ripresi a muovermi con l’energia che può provenire solo dalla speranza, ma a pochi passi da loro il maschio cominciò ad inveirmi e minacciarmi mentre la ragazza strillava.
Non compresi gli insulti, nelle orecchie sentivo solo il rimbombo delle pulsazioni e la gola gonfia non mi consentì di emettere parole se non qualche verso senza senso.
Stavo per inginocchiarmi e lasciarla fare, ma vedere la sua enorme ombra proiettarsi ed avvolgere la mia, mi fece riprendere e
continuai a camminare fin quando trovai un locale con le luci accese.
Mi precipitai dentro spalancando il portone e proseguii fino in fondo alla sala.
Le persone mi fecero passare spostandosi e guardandomi schifate per come fossi ridotto, per la puzza emanata dal mio fondo schiena e dal vomito appiccicato al cappotto. Chi non fece in tempo a togliersi lo spinsi col corpo ridotto ad un ammasso di carne barcollante, che viaggiava d’inerzia senza alcun tipo di coordinamento se non quel minimo necessario per andare avanti senza cadere.
Giunsi al fondo della sala in cui enormi specchi s’alternavano ad un arredo in stile vittoriano su un parato rosso pompeiano e lì, pur nella penombra della luce soffusa e con la mente annebbiata dalla mancanza d’ossigeno, riconobbi il bastardo cravattaro che m’aveva ridotto in quella situazione.

M’aveva visto entrare e s’era alzato per aspettarmi. Grosso e corpulento, non gli fu difficile alzarmi facendo leva sugli avambracci conficcati nel mio petto ed i pugni stretti al bavero del cappotto.

Cominciò a scuotermi e strillare come una bestia, non ricordo le parole, solo che notai da uno specchio quella cosa entrare e prepararsi a sferrare il suo colpo alla mia schiena.
In quel preciso momento lo stronzo m’aveva fatto toccare con i piedi per terra e riuscii ad usare quel po’ di forza che m’era rimasta per girarmi e scambiarmi di posizione.
Vidi la lama della falce trafiggergli il cuore ed uscirgli dal petto. Mi vomitò addosso e s’accasciò per terra come un sacco senza contenuto.
Terrorizzato indietreggiai di qualche passo mentre qualcuno si avvicinò cercando d’aiutare il mio aggressore. Sentì una donna parlare d’infarto.

Cercai d’andar via, ma sulla porta la trovai ad attendermi soddisfatta.
Non riesco a definire quanto tempo sia durata quella sensazione. Quando svanì, riuscì nuovamente a guardarmi intorno e sentire le voci, ma non c’era più nulla. Nel locale stavano chiamando l’ospedale per fare arrivare un’ambulanza e qualcuno commentava che il bastardo aveva avuto la fine che meritava.

Alfredo Martinelli Benevento, 6 febbraio 2013

il racconto è presente nel mio “Sparse carte
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Benevento, 6 febbraio 2020