Alfredo Martinelli & dintorni
Alfredo Martinelli & dintorni
Porpora
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Erano diversi giorni che le nubi minacciavano pioggia. Bianche e grigie urlavano senza sosta con boati di tuoni affogati mentre i lampi di luce restavano immersi nelle densa coltre fuligginosa. Avevano deciso di non andar via, ma abbassarsi un po’ alla volta, di ora in ora, di minuto in minuto, rendendo l’orizzonte sempre meno visibile e l’aria sempre più soffocante. Era piena estate, ma neanche il Sole riusciva a penetrare lo spesso strato.  Solo a fine giornata, prima di calare oltre le montagne, con una luce crepuscolare e intensa, accendeva di porpora le nubi dal basso, trasformandole in tizzoni di brace ardente e rumorosa. Era come avere l’inferno capovolto sulla testa. I pochi televisori sparsi nelle abitazioni dei più ricchi e in qualche bar, non prendevano più il segnale e anche le radio gracidavano su ogni frequenza. 

Al mio giungere in città per la prima volta, il tipo che mi aveva preso lungo la strada e messo nel cassone dietro la furgonetta, prima di lasciarmi vicino alla stazione, mi aveva detto di trovare subito un riparo dalla pioggia. Non sapeva dei pochi soldi nelle mie tasche, con i quali preferii mangiare, piuttosto che dormire in una pensione. Di lavori cittadini sapevo poco. Mi proposi come barista, garzone, lavapiatti e maschera nei cinema. Ma più trascorrevano i giorni e meno retta mi davano le persone. Con il senso d’angoscia portato dalle nubi, notai che crebbe in loro una sorta di generosità, quasi a voler esorcizzare la paura. Se inizialmente spesso mi cacciavano senza darmi neanche il tempo di parlare oppure ascoltandomi con distrazione, dopo qualche giorno notai che le persone stavano cambiando. Più le nubi si addensavano e abbassavano e più cresceva in loro un sentimento di premura. Qualcuno mi offrì un pasto, altri mi diedero un po’ di soldi, tipo elemosina oppure dei vestiti, anche se usati e scarpe migliori di quelle che avevo ai piedi. Una signora di una fabbrica di dolci, mi propose d’usare la doccia dei dipendenti. Presi tutto ciò che mi venne offerto, senza lasciare niente. Le persone iniziarono a scusarsi di non potermi offrire un lavoro, ma le nuvole porpora, così come le avevano battezzate, avevano dimezzato acquisti e consumi e i soldi iniziavano a scarseggiare.

La mutazione avvenne lentamente, così come lente si muovevano le nubi. Inizialmente si pensò a un imminente temporale estivo, di quelli che si consumano in poche ore e nessuno diede retta alle nuvole. Poi si pensò a un momento di brutto tempo. I commercianti rimisero in vetrina abiti e scarpe di mezza stagione e i contadini ringraziarono il Signore per le imminenti piogge, che avrebbero irrorato le piantagioni. Poi le nubi iniziarono a rumoreggiare e illuminarsi di lampi e tutti uscirono con gli ombrelli. Il raggelante brivido di terrore scese sulla città quando divennero porpora e sfiorarono il campanile della cattedrale.

Le anziane signore, abituate a parlare sedute sulle sedie davanti gli usci delle case fronte strada, furono le prime a rintanarsi e pregare snocciolando i rosari. Camminando nel centro antico, dalle finestre uscivano litanie mischiate dall’eco degli stretti vicoli, fino a farle somigliare a cupi lamenti di voci d’oltretomba. Per strada le persone iniziarono a diradare e, quelle poche in giro, camminavano in fila lungo i muri dei palazzi, come topi che non vogliono farsi vedere. Erano quasi solo uomini adulti. Le donne e i ragazzi, un po’ alla volta, avevano preferito chiudersi nelle case. Chi aveva la possibilità era andato via, portando con sé ciò che entrava nelle valigie, ma negli ultimi giorni i treni non si fermavano più alla stazione e le corriere avevano interrotto i servizi nella cittadina. La più grande paura è che i lampi chiusi fra le nubi potessero schizzare via e colpire a morte chi si trovasse in strada. Immagini iconografiche simili a quelle di un dio vendicatore e crudele verso i peccatori e poiché nessun uomo è realmente in pace con se stesso, tutti avevano paura. Perfino i preti non uscirono più dalle chiese per portare l’ostia alle persone malate, preferivano ricevere in sacrestia i loro parenti e consegnare un cestino con l’ostia consacrata.

Un tardo pomeriggio, lungo il corso cittadino arrivò un’automobile scoperta. In piedi, dietro l’autista, c’era un tizio con un grosso cono nero tenuta davanti la bocca per amplificare la voce. Strillava a pieni polmoni di conoscere la verità e sapeva come aiutare tutti coloro che lo avrebbero seguito. Nessuno lo conosceva, ma quelle parole, gridate in un silenzio accecante, risuonavano come un segno di speranza. Un po’ alla volta, dietro l’auto si formò una coda di uomini, a cui, man mano che procedeva, si aggiunsero le donne scese dalle abitazioni. C’era anche qualche ragazzino. Alcuni iniziarono a sventolare fazzoletti bianchi, altri invitavano i più scettici ad aggregarsi. Io li seguivo a distanza, per curiosità, per capire cosa stesse succedendo e chi fosse quell’uomo. Si fermò nella piazza centrale e salì su una fontana circondata da quattro leoni in pietra. Dritto come l’obelisco che aveva alle spalle, si fece portare un altro cono nero, e li usò entrambi contemporaneamente, per spingere ancora più lontano la voce. gridava: “Non abbiate timore. Ci sono qui io e vi salverò! Queste nuvole sono l’espressione degli esperimenti che il Governo sta producendo per avere il controllo sui cittadini. Hanno iniziato qui, in piccolo centro e ben presto si espanderanno. Vi vogliono come schiavi obbedienti. Ma se mi seguirete ci ribelleremo e avrete salva la libertà” 

I primi applausi furono timidi, ma più parlava e incitava la folla contro il Governo e più aumentava il consenso, misurabile dal volume degli applausi. Quella stessa sera fu ospite a cena del più importante ristorante della città. Al suo lungo tavolo sedettero uomini di ogni genere tra quelli rimasti in città: dal professionista, al sempliciotto, dal gendarme al commerciante. Anche io riuscii a intrufolarmi per ascoltare e mangiare qualcosa. Erano tutti affascinati dalle sue parole e dal suo carisma. Verso fine pasto si fece dare in nome del Sindaco e gli mandò da dire che il giorno successivo sarebbe andato nel suo studio a prendere le chiavi della città. E così fu: circondato e sostenuto da una esuberante folla, il giorno successivo si autoproclamò reggente. Nei giorni seguenti stabilì il suo centro operativo in un importante albergo e definì nuovi ruoli, affidando ai sostenitori più incalliti mansioni di maggiore prestigio. in città era tornato il fermento. Molti, anzi la maggior parte erano sovraeccitati, alcuni rimasero passivi, altri ebbero forti sospetti e furono messi da parte e additati come pericolosi.

In poco tempo, nella piazza del primo comizio improvvisato, fu alzata un’imponente impalcatura in tralicci di legno, creati abbattendo gli alberi dei boschi nei dintorni. L’idea era di farla divenire la struttura più alta della città, sulla cui sommità sarebbe stata montata una potente antenna in grado di inviare  un segnale radio e trasmettere al Governo centrale e tutti i comuni limitrofi l’indipendenza della cittadina. Il lavoro su intenso, la popolazione prese d’assalto la banca e l’ufficio postale, svuotando le casse con la compiacenza dei dipendenti. La nuova cassa comunale fu gestita direttamente dal neo-reggente, che usò parte dei soldi per l’acquisto del materiale necessario alla costruzione della torre radio.

Nel frattempo le nubi osservavano immobili e rumorose, ma nessuno ne aveva più timore, anzi, erano divenute oggetto di scherno e sfida.
Quando finalmente giunse il giorno della inaugurazione, tutt’intorno la torre erano state messe transenne per evitare imprudenti movimenti contro la struttura da parte della folla euforica per lo storico momento.
Il Reggente era in cima e attendeva accanto al trasmettitore il montaggio dell’antenna, che solerti operai stavano issando con un sistema di carrucole connesse fra loro.

Scesero tutti dopo l’ultimo fissaggio, lasciando l’uomo solo in cima, pronto per lanciare il messaggio che li avrebbe liberati. Lui prese il cono per amplificare la voce e con l’altra mano accese l’impianto radio.
Forse le nubi non attendevano altro che un innesco, una miccia in grado di far divampare la pioggia. Fu sufficiente la trasmissione di poche parole “Signori del Governo centrale, è il Reggente di …” che dalle nuvole uscì una saetta di tale energia da propagarsi attraverso l’antenna lungo tutta la gracile struttura di legno, riducendola in carboni ardenti, che non ebbero tempo neanche di divampare, perché sommersi da uno scrosciare d’acqua così intenso e rumoroso da far tremare i muri dei palazzi e i basoli della strada. Parve come un terremoto che si estese come un cerchio in uno stagno capovolto, dal centro della piazza verso la periferia della città. In poco tempo furono spazzate e rase al suolo capannine e bancarelle di sostenitori, stendardi e bandieruole. Tutti scomparvero riparandosi come e dove possibile. Io rimasi sotto l’ingresso della chiesa a osservare il movimento di quei poveri creduloni e illusi.

Successivamente la situazione si andò normalizzando. Per intima vergogna di ogni individuo attivo in quei giorni, di quell’uomo e quelle nubi non si parlò più. Io tornai al mio piccolo paesello e l’autunno successivo mi iscrissi alle scuole superiori per potere insegnare dopo il diploma  e raccontare per non far scordare,  quel che vissi durante l’estate dei miei quattordici anni.

Alfredo Martinelli [Benevento, 17 maggio 2020]

AM

Benevento, 18 maggio 2020