A passi corti, incerti e disuguali, tutte le mattine percorre il tratto da casa alla scuola. Il primo attraversamento è a pochi metri dopo il portone sul retro del palazzo o, come direbbe lui, ventisette passi e mezzo. Prima di passare sulle otto strisce bianche, con diligenza attende il transito delle auto, anche quelle lontane lontane, così come gli aveva insegnato la mamma: “Non avere fretta di passare dall’altra parte, attendi che non ci sia nessuno poi un bel respiro e via, senza fermarti.” Il tratto successivo è semplice: lo percorre lungo il muro di cinta, ricoperto da una sempreverde edera dall’intenso verde, gli dà il senso di sicurezza di cui ha bisogno per riprendere fiato dopo la tensione sulle strisce. Ha contato settecentonovantacinque passi, che può compiere senza troppi pensieri. Da sempre ha preferito il lato a contatto con le foglie, fin da piccolo, fin da quando a scuola lo accompagnava la mamma tenendolo per mano e guardandolo con dolcezza ogni volta che pestava distrattamente una pozzanghera o girava lentamente intorno a essa, osservandola come se potesse spostarsi e farsi trovare nuovamente sotto i piedi. L’unico imprevisto sono i cani condotti da padroni distratti o superficiali. Quando li incontra si ferma, in silenzio attende d’essere superato e poi riprende il cammino. Solitamente tutto passa nel tempo che conta fino a tredici, ma qualche volta gli è capitato di arrivare fino a ventisette. Il secondo attraversamento è meno impegnativo: su quella via transitano poche vetture ed è composto di sole cinque strisce. Di lì in poi resta solo il tratto in cui il muso di molte automobili sporge sul marciapiede per tutta la lunghezza che va dalle ruote al paraurti. Sono altri cinquecentosedici passi, ma possono arrivare anche fino a cinquecentotrenta se, per passare nelle strettoie, deve spostarsi camminando lateralmente come i granchietti, offrendo le spalle alla parete e le ginocchia ai musi delle vetture. Una volta contò ben sedici automobili parcheggiate in quel modo e per colpa di sei di loro arrivò a fare cinquecentotrentasette passi. Fu per lui un evento fuori dal consueto, di cui ricorda ancora la data: era il 21 settembre di qualche anno prima. Terminato l’ultimo passo c’è finalmente il grande cancello dalle grate rosse, che immette nel cortile della scuola. Lì, dopo cinque passi sulla sinistra, per non intralciare il passaggio, come gli aveva spiegato la mamma, ogni giorno si ferma e riprende fiato, si gira su se stesso, guarda intorno e ricambia i saluti di tutti. Qualcuno si ferma anche a scambiare due parole. Lui si concentra, respira ed espelle tutte le parole della frase in un’unica sequenza senza interruzioni. Non sempre hanno la giusta sequenza, perché alle volte rispondere a una bella ragazza gli fa battere forte il petto e salire l’emozione e lui se ne accorge solo alla fine, quando le parole sono ormai uscite e non può farci più nulla. In quel momento il sorriso gli si contrae in una smorfia, ma torna sorriso se chi gli è di fronte risponde, facendo capire d’aver inteso il pensiero. Da quella posizione mancano solo diciotto passi alle quattro scale che portano dentro l’edificio e altri ventisette per arrivare al laboratorio d’arte. È lì che lavora.
Questo è per lui un giorno speciale: il primo del nuovo anno scolastico. Per la prima volta, nella scuola non ci sarà la sua maestra ad attenderlo. Lei, che lo notò fra tanti, che nel tempo gli fece capire quanto lui fosse importante nell’universo, si è sposata durante l’estate e ha cambiato città.
Il cerimoniale dei saluti è ora finito, sta per entrare a scuola da adulto, con tutte le responsabilità del caso e senza una persona amica a cui fare riferimento. Deglutisce, prende fiato, infila la mano in tasca e controlla per l’ennesima volta la presenza dei due gettoni telefonici presi quella mattina. Di solito porta con sé solo uno dei due, per chiamare a casa se ha necessità di un consiglio o per far sapere che sta bene, ma da oggi sarebbero stati sempre due: l’altro è per la sua maestra. Lei gli ha inviato una lettera qualche giorno fa, erano gli auguri in vista del nuovo anno lavorativo.
In questi momenti di forti emozioni, la sua mente trova conforto nel ricordo del suo primo incontro con lei.
Lunghi e lisci capelli neri, fronte alta e spaziosa, occhi dalle pupille come gocce di nero seppia, con eleganza gli si era avvicinata il primo giorno di scuola. Lui, piccolo e totalmente glabro, si era rifugiato in fondo alla classe, dietro uno dei tanti compagni più grossi di lui. Chiuso in un cappello di cotone bianco, calato fin quasi sugli occhi per nascondersi, immobile e silenzioso attendeva il suono della campanella per scappare e rifugiarsi fra le braccia della madre in attesa oltre il cancello.
Ancora oggi ricorda bene che quando lei si avvicinò erano trascorsi cinquecentosessantasette secondi dalla chiusura della porta della classe: “Cosa ci fa un bel giovanotto come te tutto chiuso e nascosto? Su dai esci e fatti conoscere!” Una frase semplice, simile ad altre già sentite, ma carica di affetto nelle pieghe della voce e delle labbra, nelle rughe della fronte e degli occhi, nella forma del naso e delle guance. Fu per lui un gesto spontaneo allungare la mano per farsi prendere, condurre al primo banco e così sentire che aveva la pelle più morbida della mano della mamma e i capelli più profumati e la voce più dolce e i denti più bianchi e le labbra più rosse e le guance più giovani.
Non ebbe modo di guardarsi intorno, osservare i visi dei compagni ancora sconosciuti in quel primo giorno, di pensare al tratto percorso o contare i passi che stava compiendo da un posto all’altro. Capì, però, che stava per iniziare un nuovo momento della sua vita e si lasciò trasportare senza opporre resistenza.
Piano, senza fretta, senza alzare una sola volta la voce o gli occhi al cielo o sbuffare o far finta di non aver capito il suo bisogno o solo salutarlo senza poi chiedergli un bacio sulla guancia per farle passare il mal di testa, così trascorse il prima anno di scuola: simile al racconto di una fiaba senza orchi.
Poche per molti, ma tante per lui, erano state le nuove cose imparate. A fine anno sapeva leggere e scrivere il suo nome, quello delle persone a lui care e di qualche oggetto di uso comune. Aveva capito che i numeri fra loro possono anche sommarsi e non solo essere messi in sequenza.
Durante la primavera del secondo anno, lei colse l’occasione di una lezione all’aperto nella vicina Villa Comunale. “Sai” gli disse “quando avevo la tua età, mia madre mi fece radere a zero i capelli, proprio come i tuoi!” “E perché?” chiese lui dopo qualche incerto tentativo andato male, durante il quale la maestra attese con dolcezza che riuscisse a esprimere correttamente il pensiero. “Mi disse che avrei potuto sentire il tepore del bacio del Sole sulla pelle, capire meglio la dolcezza delle carezze e delle gocce di pioggia quando si aprono dopo averci toccato.” “Era brava tua madre!” disse lui con aria di stupore. “Molto e aveva ragione. Che dici, vuoi provare anche tu?” Con un gesto inaspettato e rapido, tolse il cappello, chiuse gli occhi e volse lo sguardo al Sole: “Tua madre aveva proprio ragione!” disse dopo solo pochi istanti e da quel momento i cappelli li indossa solo per proteggersi dal freddo e dal caldo e non più per nascondersi, ma, più d’ogni altra cosa, ha imparato a costruirli.
La maestra aveva intuito in lui il naturale talento nella manualità che si esplicita nella ripetizione di gesti simili, impreziosita dall’innata predisposizione per il gusto nella scelta dei colori e delle forme e seppe abbinarli alla creazione di oggetti a lui familiari.
Al termine del ciclo delle elementari sapeva scrivere in sequenza corretta le parole e anche leggere in modo che si capisse. Aveva imparato addizioni e sottrazioni, qualche moltiplicazione semplice, ma soprattutto, aveva imparato a disegnare i cappelli prima di crearli.
Con costanza e disciplina non invasive, ogni giorno la maestra gli aveva somministrato la giusta dose di incentivo per farlo appassionare e far emergere il talento. Pochi minuti al giorno, suddivisi con sapienza nel corso delle mattinate scolastiche.
Le scuole medie le frequentò nello stesso complesso scolastico. Per lui la maestra aveva chiesto al preside l’uso del laboratorio di arte almeno una volta al giorno, durante la quale lei, puntuale, passava a trovarlo. Insieme sceglievano fra i nuovi disegni di modelli e lei provava ogni nuova creazione. Ogni modello, ogni abbinamento di colore, ogni forma, ogni ondulatura era pensata per la sua maestra. Seppur tutti differenti, tutti avevano la capacità di impreziosirle il viso e dare risalto agli occhi, alle labbra, alle gote, al profilo.
Sapeva bene di dover prima completare i compiti e poi dedicarsi alla sua passione, se lei avesse intuito poca dedizione allo studio, l’avrebbe presa male e lui non poteva deluderla, non avrebbe mai tradito la sua fiducia. Il solo pensiero di veder spegnere quel sorriso gli creava un senso di soffocamento nel petto, come un peso, come una grossa e nerboruta mano chiusa a pugno sui polmoni.
Non passò giorno senza andare a scuola, senza perdere una lezione, senza aver dedicato tutto il tempo necessario a imparare i nomi dei fiumi, le formule di geometria, gli eventi storici e le poesie. Durante le interrogazioni e nei compiti in classe non era certo brillante, ma agli insegnanti era sufficiente capire che lui avesse studiato e capito tutto ciò che era per lui possibile.
Tutto procedeva con regolare semplicità. I risultati dei suoi progressi erano evidenti e i tempi sembravano ormai maturi per affrontare un delicato passaggio, un’informazione a lui ancora tenuta celata per non alterare l’equilibrio emotivo. Così come ogni altro passaggio educativo, la decisione era stata presa insieme ai genitori: era giunto il momento di fargli conoscere il fidanzato della maestra.
Partirono da molto lontano, che quasi sembrava non esserci alcuna relazione logica con l’argomento da affrontare. Un po’ alla volta, sia a casa che a scuola, lo condussero alla consapevolezza di questa nuova figura: un amico della maestra, maestro anche lui, ma di ragazzi più grandi. La prese bene, dopo una iniziale indifferenza, seguita da diffidenza verso lo sconosciuto, col tempo iniziò anche a chiedere di lui, fino a voler sentire la voce per capire se potersi fidare. Fu così organizzata una cena, come evento dedicato alla telefonata e per tutta la sera lui non parlò d’altro, entusiasta di quel tono calmo e fraterno e di tutte le cose simpatiche che gli aveva detto.
Era ormai pronto a conoscerlo e decisero che si poteva procedere all’incontro. Ma quando ciò che sembra distante e irreale prende forma e concrete sembianze è difficile da digerire. Tutto quel tempo aveva voluto compiacere la sua maestra, semplicemente non aveva voluto deluderla, come quando si impegnava oltre ogni sua forza per studiare e per fare bene i compiti in classe. Stavolta però non c’era stato chi aveva capito il suo impegno e le sue parole dette alla rinfusa, ma un insegnante diverso: uno grosso, alto, con una bella camicia e belle scarpe, con i capelli e senza occhiali, uno che quella sera sarebbe andato via con lei e forse non l’avrebbe più riportata. La serata prese una piega inaspettata: lui si chiuse nella stanza. Senza dire una sola frase, una parola, senza urlare, sbuffare, piangere o singhiozzare, con movimenti senza anima e il volto impassibile di chi non ha emozioni, aprì la finestra facendo entrare la pioggia profumata, corposa e battente delle estati mediterranee. Un potente soffio d’aria fresca e bagnata invase la camera spostando tende e lenzuola, carte e quaderni, vestiti e cappelli. Immobile e impassibile, privo di ogni apparente sentimento nello sguardo, con gesti senza anima ripetuti per ogni oggetto, appoggiò nel vuoto esterno alla finestra ogni cappello a portata di mano, ogni disegno, ogni rotolo di tela e di stoffa, ogni rocchetta di cotone e ago e ogni suo passato sorriso volò via insieme a loro, fino a giungere sulla strada. In tutto contò ottantanove oggetti. I sorrisi con lei no, non aveva mai avuto la possibilità di memorizzarli, erano sempre usciti soli, senza preavviso, senza controllo, senza far rumore.
Ebbe così inizio un lungo periodo di assenza dal laboratorio scolastico. A nulla servirono i tentativi di insegnanti e genitori. Quando poi vedeva da lontano la maestra, cambiava strada e non rispondeva neanche con un mugugno. Il libro con lei era stato chiuso, quella bella favola era finita. Aumentò il tempo dedicato allo studio e tutto quello che avanzava lo trascorreva fuori casa, girando nel dedalo delle strette vie del centro fino a perdersi e fare tardi la sera. Senza farsi notare i genitori altro non potevano fare che controllare il suo incerto procedere su quei basoli sconnessi, su cui spesso barcollava perdendo l’equilibrio. Inermi osservavano il terrore nello sguardo quando il rombo di motorini e auto rimbombava rimbalzando fra le pareti dei piccoli palazzi fronte strada, facendogli sbarrare gli occhi e fermare il respiro.
L’anno scolastico era agli sgoccioli di lì a poco l’esame di terza media avrebbe segnato il varco verso un nuovo mondo scolastico, più adulto e pericoloso, per molti versi cinico e spietato.
Accadde poi che una di quelle sera si perse. Si era immesso in un vicolo mai visitato per non farsi vedere con i vestiti sporchi: incurante della sua presenza,un’auto aveva schiacciato a tutta velocità una delle tante pozzanghere, bagnandolo dalla testa ai piedi. Lui non si era scomposto, non aveva imprecato, non si era disperato, aveva semplicemente cambiato strada e si era perso. S’era fatto più tardi del solito e ancora non aveva individuato riferimenti conosciuti. I numeri dei passi fra un vicolo e l’altro non si trovavano, non corrispondevano mai. I colori dei fiori alle finestre e le forme dei portoncini sulla strada erano differenti. Non c’erano le stesse luci attaccate alle pareti o le stesse persone sedute sulle sedie fuori dalle porte a parlare fra loro. Era sfinito, gli mancava il fiato, la bocca era così secca che sentiva la lingua grattare il palato e aveva le mani così sudate che avrebbe potuto lavarsi il viso senza usare l’acqua. Si sedette sull’ultimo di tre gradini in pietra, poggiando la schiena a un portone in legno malconcio. Per la prima volta in vita sua stava per rinunciare. Di fronte aveva un intero vicolo stretto, sporco e deserto, coperto da un cielo divenuto ormai cobalto. Aveva voglia di scappare e correre da qualcuno che lo salvasse, ma era solo e strinse i pugni fino a sentire dolore alle dita. Sul lato destro contò sedici finestre, quattro balconi e quattro portoncini.
Nel passare alla conta sul lato sinistro notò una figura di donna. Si fermò a osservare meglio: aveva una gonna nera e stretta, scarpe nere aperte e una camicia chiara. Ma ciò che gli fermò il respiro, fu vederle indosso uno dei suoi cappelli: era il quinto che aveva buttato dalla finestra, uno dei preferiti della maestra. In quel momento vide la donna accoccolarsi e spalancare le braccia: era lì solo per lui, era venuta a salvarlo un’altra volta. Si alzò e camminò senza contare i passi e le finestre che stava superando e i basoli che stava calpestando. Si abbandonò nell’abbraccio e, per la prima volta, singhiozzò come se stesse piangendo.
Molti anni erano passati dal quel momento, fino all’estate da poco trascorsa. Non era stata una qualsiasi, ma quella del matrimonio e non fu neanche un matrimonio qualsiasi.
Lui fu il testimone della sposa e in chiesa trovò tutta la forza e la concentrazione necessaria per leggere un suo pensiero. Ma il momento più emozionante fu per lei vedere ogni invitato, ogni persona presente, ogni giovane, anziano, bambino, adulto, uomo o donna indossare uno dei cappelli disegnati e creati per l’occasione. Fu per lei una sorpresa senza precedenti: come un enorme prato fiorito e arricchito dai colori più affascinanti che la natura abbia disponibile era avanti i suoi occhi lo spettacolo degli invitati. “Sono sicura” disse a voce alta “che negli anni a venire, questa non sarà ricordata come quella del mio matrimonio, ma come l’estate dei colorati cappelli!” Tutti risero e applaudirono e lui non ebbe modo di contare tutte le mani alzate.
I ricordi sono finiti e lui ha ripreso serenità. Pochi gradini e inizierà una nuova fase, un nuova pagina da scrivere, questa volta da solo, ma con la giusta dose di esperienza e di forza d’animo. Si sente pronto per i prossimi diciotto passi, sì, solo diciotto e quattro gradini per iniziare. Un bel respiro e via. Eccolo ora dentro la scuola, senza guardare intorno, con lo sguardo basso sui piedi per non inciampare e non farsi distrarre da altro, mancano solo dodici passi al laboratorio, tre, la porta, ci siamo, è dentro: “Buon inizio anno! … veramente pensavi che ti avrei lasciato iniziare questa nuova avventura senza neanche salutarti!”
Barcollando le è corso incontro, per fermarsi pochi centimetri prima e, per la prima volta, dire: “Ti voglio bene!”
Alfredo Martinelli
[Benevento/Cirella 30 luglio 2017]
pubblicato sul blog il 10 maggio 2018