Pioveva a dirotto ed era notte fonda. Le dense gocce schioccavano nelle pozzanghere così buie e dense da sembrare inchiostro. Sulla superficie creavano piccoli crateri che duravano meno del loro suono. Molte altre gocce scivolavano sotto il colletto della camicia e le sentivo scorrere rapide e gelide lungo la schiena. Le scarpe erano così inzuppate da sembrare buste cariche d’acqua e non sentivo più i piedi. Le prove erano finite tardi. Avevamo deciso di farle lo stesso, anche se l’intero Paese era fermo per le nuove politiche di austerità dei consumi. Entro un’ora dal tramonto di ogni giorno, bisognava chiudere negozi, bar e ogni altra attività che implicasse l’uso della corrente e di ogni altra fonte energetica come il gas, il carbone e l’olio combustibile. Solo nelle abitazioni era possibile scaldarsi e cucinare con il gas, ma usando quello delle bombole, che venivano razionate in base al numero dei componenti familiari.
Non c’era il coprifuoco, si poteva entrare e uscire a qualsiasi ora, ma le strade erano buie e spesso percorse da teppistelli e rubagalline in cerca di un facile guadagno. Sembra che anche i cani avessero capito a quale ora iniziasse il loro regno e, sempre più spesso, si leggeva sui giornali di persone fuggite miracolosamente a rabbiosi molossi decisi a dominare il proprio territorio. La polizia poteva poco, perché l’indomani erano irrintracciabili, quasi svaniti con le tenebre.
Da qualche tempo, le persone persone avevano imparato a fabbricare le candele in casa, usando materiale di scarto e si era diffusa l’abitudine di accenderne qualcuno dietro le finestre, per illuminare un minimo le strade. Non tutti lo facevano e non tutte le strade erano illuminate nello stesso modo, ma a qualcosa servivano, soprattutto a chi come me, aveva la necessità di uscire col buio. L’effetto era decisamente macabro. Viste dalla strada, le file di palazzi lungo la strada sembravano enormi pareti mortuarie di cimiteri illuminate dai ceri votivi. Quando poi dalle finestre si scorgevano affacciarsi i profili in penombra degli inquilini, il cuore con un balzo arrivava in gola ed era difficile anche deglutire.
Quella notte decisi di infilarmi nei vicoli e viuzze del centro storico, sperando in un miglior rifugio dalla pioggia, ma non fu una buona scelta. Oltre le pozzanghere nascoste tra gli avvallamenti della strada, spesso gli enormi basoli si muovevano al mio passaggio alzando secchiate d’acqua mista a terra e sporcizia varia che mi inondarono anche dal basso. Continuai rallentando parecchio il passo e con la testa rivolta a terra non solo per guardare dove mettere i piedi, ma soprattutto per evitare di sentirmi soffocare dalle abitazioni a filo strada più scure della strada stessa e senza un portone in cui ripararmi. Mi fermai sotto uno stretto balconcino per riprendermi un po’. Avevo i vestiti pesanti d’acqua, non sentivo più le labbra e i denti iniziarono a battere da soli per il freddo. Non avevo neanche la forza di piangere e, purtroppo, il peggio stava per arrivare.
Iniziai a sentire latrati lontani, ma non ne capii la provenienza e neanche quanto lontani fossero, perché il rumore della pioggia mischiava tutti i suoni. Capii però che la nottata stava rapidamente peggiorando, così ripresi a camminare provando ad aumentare il passo, ma una delle tante pozzanghere in cui infilai il piede nascondeva una larga crepa tra i basoli e caddi rovinosamente alzando tanta di quell’acqua, che molta mi saltò direttamente in bocca. Annaspai senz’aria per qualche istante che parve eterno, con la braccia ancora protese nella pozza per sorreggermi. Insieme al primo nuovo respiro vidi in fondo al vicolo gli occhi dei cani riflettere le fiammelle di alcune candele dietro una finestra lì accanto. Stavo andando nella direzione sbagliata. Non so con quali forze mi sollevai per tornare indietro, ma avvertii nuovamente l’ansimare dei cani e il rumore delle zampe schiacciare l’acqua in fondo al vicolo. Mi avevano circondato, non so quanti fossero. Bussai violentemente a una porta, ma dalla finestra accanto non proveniva alcuna luce, forse dormivano o era disabitata. Strinsi forte gli occhi, non volevo vederli quando mi avrebbero azzannato, speravo solo di non soffrire troppo e iniziai ad ansimare dalla paura. Pensai ai miei genitori e a mio fratello, che sarebbero rimasti senza il mio aiuto.
I cani stavano arrivando da entrambi i lati. Non sentivo neanche più la pioggia cadermi addosso e neanche il suo rumore, ma solo i loro passi sempre più vicini. Aprii gli occhi per istinto e vidi, proprio davanti, un vicolo molto più stretto o forse una semplice rientranza fra i palazzotti della strada. Mi infilai sperando di sparire nel buio. Dopo solo pochi passi udii una voce imperiosa accanto a me: “Entra, muoviti!” Non l’avevo sentita o vista aprirsi, la porta era spalancata e m’infilai con un tuffo, senza pensarci due volte, restando carponi subito dopo l’uscio. La sentii chiudersi alle mie spalle e subito dopo una corposa coperta mi coprii interamente, lasciando libero solo il viso. Per un po’ rimasi ansimante in quella posizione, fin quando il calore delle fiamme del camino mi fece smettere di tremare. Solo allora mi alzai e la vidi seduta su un’antica e avvolgente poltrona damascata. Sorseggiava da un’elegante tazza da tè, che, di tanto in tanto, appoggiava su un tondo tavolino in legno scuro, sorretto da un unico gambo simile a un intreccio di tre rami appoggiati con quattro piedini al pavimento. L’ambiente era abbastanza buio, illuminato solo dalle fiamme nel camino, che producevano ombre così irregolari sulle pareti da dare un senso di movimento agli oggetti proiettati sulla tappezzerie caratterizzata con chiaroscure fasce verticali.
Mi alzai tenendo la coperta sulle spalle e mi avvicinai alla donna. Era avvolta in un aderente vestito amaranto che terminava in una gonna leggermente scampanata fino alle ginocchia Aveva occhi di un azzurro così intenso da sembrare finti, capelli mossi e corti, carnagione chiarissima e un profilo gentile simile a quello delle bambole di porcellana, ma, soprattutto, esprimeva un’innata eleganza al solo solo guardarla. Con voce pacata mi indicò dei vestiti asciutti sulla poltrona accanto a lei e mi invitò a cambiarmi dietro un separè immerso nel buio in fondo alla stanza. L’idea non mi diede imbarazzo e seguii le indicazioni.
Quando tornai da lei, la trovai con una tazza di latte caldo e miele per me. Mi accomodai sulla poltrona e bevvi a brevi sorsi, senza parlare, mentre lei faceva scorrere le dita sulle pagine di un vecchio libro, mostrando indifferenza. Solo quando ebbi finito, mi chiese:“Dimmi, cosa ti ha portato a me?” Lo pronunciò come se in giro si sapesse di lei, ma io non l’avevo mai vista e non avevo mai notato neanche quella rientranza nel vicolo. Quasi come uno sfogo le raccontai tutte le vicissitudini delle sera, dalle prove in teatro alla pioggia, le cadute e infine i cani.
“Ah, i cani, ne ho sentito parlare, ma non mi sembra abbiano mai fatto male a nessuno!” disse lei con un tono di chi cerca di calmare.
“Sì, così sembra, ma forse solo per casi fortuiti, come quello di trovare riparo qui stasera.”
“Tra caso fortuito e occasione il confine è labile.” mi rispose la donna, con un’espressione nella voce quasi a voler sottolineare un recondito senso alla mia presenza lì.
Ebbi un moto interno di vaghezza, un po’ come quando ci si trova su una piccola imbarcazione che d’improvviso viene scossa da un’onda più intensa. Provai a osservarla meglio in viso per carpire qualcosa in più su quella frase ed ebbi strane sensazioni. Il viso sembrava mutare età in base al movimento delle luci e ombre proiettate dal camino. Alle volte sembrava giovane, altre quasi anziana. In altri momenti mi parve una signora di mezza età. In ogni caso, l’elegante fascino restava immutato. Di sicuro era non vedente. Quando parlava, seppur mi guardasse in viso, la pupille non centravano mai le mie, di poco, uno scostamento percettibile solo ponendo molta attenzione.
“Hai detto che hai fatto delle prove, di che genere?”
presi la domanda come un modo per avviare una gentile conversazione e le parlai del mio progetto teatrale, lasciandomi andare a tutte le considerazioni sui desideri e sogni legati a quel progetto e su quanto ancora avrei dovuto fare per slegarmi da certi vincoli e dedicarmi pienamente a ciò che mi dava appagamento insieme a persone con cui stavo bene.
“E come mai?” chiese la donna
“ho paura di non farcela, di deludere, di stancarmi, d’essere un intruso”
Lei accennò un sorriso e, dopo una pausa quasi teatrale, rispose:
“Sono quattro paure ben definite, mi ricordano i cani che hai detto d’aver visto stasera e di cui tutti parlano, ma nessuno ha mai visto”
In quel momento sentii aprirsi dentro come una voragine, un improvviso vuoto che si spalancava nel mio corpo partendo dalla gola e tirava giù dritto fino ai piedi, quasi a volermi portare con sé.
“Sento turbamento, cosa ti è successo? Dimmi!” esortò la mia ospite. Anche se non poteva guardarmi il viso, da qualcosa, per me indecifrabile, aveva capito il mio stato d’animo.
Quasi balbettai nel rispondere “E che io non so, come se qualcosa mi bloccasse, una sorta di paura che mi spegne il desiderio, quasi una sfiducia verso me, che …”
“Ecco, è proprio questo il punto: è la sfiducia in noi che alimenta le paure fino a renderle vere e a farci rinchiudere nei sogni, come li hai chiamati tu. Piuttosto inizia a chiamarli progetti, loro non svaniscono all’alba, sono reali e ci danno la forza di perseguirli.”
Poi si alzò per aprire la porta. Avevo trascorso da lei tutta la notte. Fuori aveva smesso di piovere, il Sole era sorto e già si rifletteva nelle pozzanghere e le superfici ancora bagnate. I miei vestiti erano asciutti e io mi sentivo bene, come quando stai per iniziare il viaggio che hai
da sempre desiderato. La salutai con devozione, ringraziandola più volte. Lei rimase sull’uscio. Quando stavo per svoltare verso il vicolo più grande, mi voltai un’ultima volta e vidi quattro enormi cani sbucare da dietro un cespuglio accanto alla porta della signora in amaranto, farle festa ed entrare in casa.
Alfredo Martinelli [Benevento, 25 aprile 2020]
AM
Benevento, 26 aprile 2020