Non citerò la persona con cui viaggiai quell’estate, perché non ha un profilo social e ora è uno stimato professore, quindi non vorrei rovinargli la reputazione presso gli studenti. Io invece sono anche peggiorato rispetto a quei tempi e posso permettermelo.
Entrambi eravamo tornati single da pochi mesi e quel viaggio sarebbe dovuto essere d’evasione, ma io ero abituato alla spartanità dei viaggi on the road, lui no e soffrì parecchio per tutto il tempo. Il mezzo di trasporto fu una Lancia Y10 mille di cilindrata o giù di lì. L’obiettivo fittizio era l’isola olandese di Texel immersa nel mare del Nord, il mio obiettivo reale era semplicemente viaggiare, il suo non l’ho mai capito. Per quasi tutto il viaggio la colonna sonora fu basata su “Lemon Tree” dei Fool’s Garden e “Nord Sud Ovest Est” degli 883. Ci demmo poche regole, tra le quali evitare strade a pagamento e spendere il meno possibile per il cibo e per dormire. Con noi portammo una vasta povvista di cibo più o meno pronto all’uso e la mia storica tenda a igloo, veterana di tanti altri viaggi e con uno squarcio mal ricucito su un lato, ricordo di una tempesta estiva di qualche anno prima. La prima anomalia avvenne la prima notte, in un campeggio sulle sponde di un lago nei pressi di Chambéry in Francia: durante una frugale cena si spense per sempre l’unica lampada in nostro possesso. Il resto dei momenti serali lo trascorremmo alla luce dei pochi lampioni nei campeggi o dei fari dell’auto. Gran parte del giorno successivo viaggiammo lungo il confine delimitato dal fiume Mosa, sul quale navigavano placidamente enormi chiatte, alcune turistiche, altre commerciali, mentre, sul versante opposto, i prati dei giardini delle ville confinavano con gli argini. Dopo un’altra notte nell’umido nordico il terzo giorno eravamo finalmente sul traghetto per Texel, considerata all’epoca una sorta di Rimini olandese, ma decisamente più sobria nelle comodità. Sbarcato sul suolo isolano finalmente ci trovammo immersi nel biondo che cercavamo. Trovammo posto in un campeggio simile alla piana di Woodstock, con tende peggiori della mia e gente spinellata e zuppa di alcool che dormiva ovunque e puzzava di tutto ciò che il corpo è in grado di produrre. Il Sole tramontava oltre le 22:30 e con lui andava via anche l’ultimo tepore di giornate campali, sempre meno sopportate dal mio compagno di viaggio. Per fortuna la gioventù femminile di contorno mi aiutò a sopportare l’indolente suo malumore. Arrivò quindi il famoso 4 agosto del ’96. L’Italvolley maschile era in finale olimpica contro l’Olanda e noi eravamo gli unici mediterranei in un pub di skinheads locali. Il termne skinheads non l’ho usato per scherzare, avevno realmente il cranio rasato, muscoli tatutati e facce feoci. L’Italia giocava bene e per noi il clima si faceva sempre più teso. Gli sguardi che ci rivolgevano non lasciavano ben sperare, al punto che fingemmo spagnoli e non tifare per l’Italia e studiammo una via di fuga. Fortunatamente per noi l’Italia perse quasi inspiegabilmente e tutti i nordici tatuati si misero in fila per salutarci con baci sulla fronte e abbracci, come se fossimo stati i parenti del defunto. Rincuorati dallo scampato pericolo tornammo alla tenda e decidemmo di cambiare luogo di villeggiatura. Ma il mattino seguente ci accorgemmo della prematura morte della batteria dell’auto, oramai cadavere da chissà quanti giorni nel cofano, così tutto il risparmio per pasti e autostrade si trasformò in corrente continua a 12 volt, pagata a peso d’oro presso un improvvisato elettrauto del posto, beccato la mattina presto nell’atto della colazione e perciò ancora più caro. Ma ci aspettava il campeggio di Amsterdam e il pensiero annullò il rimpianto dei soldi. Quando arrivammo era sera. Davanti ogni tenda brillava un lumino, la cui fiammella serviva a sciogliere ciò che tanta gioventù va lì ad acquistare. Sembrava un cimitero, ma con un profumo tutt’altro che stantio. Di giorno girammo musei e canali, le sere nella capitale le trascorremmo tra canali, birrerie e il solito quartiere a luci rosse, l’unico aperto dopo le 21:00. Dicemmo no a molti venditori ambulanti di sostanze stupefacenti e non usufruimmo di nessuna prestazione sessuale a pagamento. Seppur molto diversi nello stile e approccio alla vita, entrambi concordavano sul romantico concetto che la donna vada conquistata e non pagata. Dopo la terza sera nella capitale ci fu il lampo di genio: spostarci a Rotterdam, la città rossa (per i mattoni tipici delle costruzioni) di Erasmo. Lì, per non far impazzire definitivamente il mio compagno di viaggio, pernottammo in un ostello, in cui ci fecero mangiare un brodo salsinato di origine vegetale, proveniente da bustine liofilizzate. Non commentai per non infierire, ma, francamente, avremmo mangiato meglio usando le scatolette conservate in auto. Il vero spettacolo avvenne però la sera, quando in una stanza di otto persone, disposte in 4 letti a castello, 2 di loro fecero l’amMmore davanti a tutti, seppur nella penombra, rendendo più complesso prender sonno. Fu l’atto finale, che liberò la frustrazione del mio amico: “basta, voglio tornare a casa!” urlò il giorno seguente. Così partimmo presto e, in un sol giorno, attraversammo: Olanda, Lussemburgo Belgio, Francia e Svizzera, fermandoci a Cremona per la notte, in uno di quegli hotel a ore, spartani ed economici quanto basta. Era oramai tempo di vedere il Mediterraneo illuminato da un Sole caldo, solo che scegliemmo uno strano campeggio lungo la costa marchigiana, selezionato per puro sfinimento dopo ore di fila in un’autostrada zeppa di turisti del ferragosto. L’epilogo sembrò essere stato pensato a tavolino da un sarcastico sceneggiatore: la seconda notte il campeggio fu devastato da una pioggia torrenziale. Noi avemmo la tenda devastata con tutti i panni immersi nella fanghiglia, dormimmo in auto e il mio amico perse il portafoglio con tutti i soldi e i documenti. Il mattino successivo tornammo a casa e non ci vedemmo per parecchio tempo. Siamo rimasti buoni amici. Io ho continuato a viaggiare in modi sempre diversi.
AM
Diamante 21 luglio 2020